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di Davide Ferrario

Dapprima, c’è l’inevitabile passeggiata in centro città. Ma quando amici italiani o stranieri vengono a trovarmi, prima o poi li porto sempre a Parco Dora. Di solito non ne sanno nulla, e il Parco è lungi dall’essere indicato tra i «must» di una visita a Torino.

Più facile accontentarsi dei «luoghi comuni» (in tutti i sensi) addossati alla Mole: in fondo, chi ha voglia di andare in periferia? Eppure tutti, quando ci arrivano, restano a bocca aperta. Subito, per la grandiosità del colpo d’occhio, che è insieme un’esperienza spaziale/visuale, nonché la suggestione delle gigantesche dimensioni dell’epoca industriale della città. Poi, camminandoci dentro, perché pian piano ne scoprono i dettagli e la sorprendente interazione tra natura, architettura, paesaggio e iconografia.

Ci sono poi giornate, come durante il Kappa FuturFestival o alla fine del Ramadan, quando l’ex-capannone dello strippaggio si riempie di migliaia e migliaia di persone. Sono giorni in cui Parco Dora sembra il set di un film di fantascienza, una versione «buona» di Biade Runner, la prefigurazione di un mondo a venire (a venire?) in cui le masse che si aggregano per la musica o per la religione possono convivere alternandosi nello stesso luogo. Peccato, però, che la condizione quotidiana del Parco ispiri tutt’altre riflessioni. Il rapporto tra spazi e frequentatori, simile a quello di una cattedrale, non comunica un sentimento sacrale, ma di straniamento. La manutenzione è quella che è, pesantemente condizionata dall’operato dei vandali che qui non mancano; anzi, sono favoriti dalla natura del luogo. E così il rapporto con il quartiere resta problematico, spesso in ostaggio di paure motivate e presunte. E’ dunque una bellissima notizia che l’impresario Maurizio Vitale, proprio quello del Kappa FuturFestival, si sia offerto di intervenire direttamente nella gestione e manutenzione ordinarie del Parco. La proposta è all’esame della Giunta, che ne discuterà vantaggi e svantaggi; e dovrà considerare tutte le zone grigie tra diritto privato e pubblico che si verrebbero a creare. Ma comunque vada a finire la vicenda in mano alla politica e alla burocrazia, c’è un punto di principio che dovrebbe essere capito e condiviso da tutti. Parco Dora è una metafora — molto concreta nella sua materialità — di cosa potrebbe essere la Torino del futuro. Non qualcosa da immaginare dal nulla, o parole in un programma elettorale, ma qualcosa che è già stato costruito sulla base del passato e della memoria.

Un’utopia, figlia di una visione forse elitaria, ma coraggiosa e giusta. Un’utopia che si è realizzata a metà. Ma Parco Dora, come la High Line di New York, è un luogo che qualsiasi metropoli ci invidierebbe se tutti noi avessimo il coraggio e l’audacia di riempirlo di storie, eventi, incontri 365 giorni all’anno. Se osassimo ancora sognare, invece di rassegnarci.