Si è appena conclusa un’edizione da record del festival techno torinese, con oltre 80mila persone provenienti da più di un centinaio di paesi diversi. Il nostro report
L’avevamo capito già dalle prime ore caldissime di venerdì pomeriggio che sarebbe stata un’edizione straordinaria del Kappa FuturFestival, uno dei festival italiani più rispettati e considerati in Europa e non solo. I lunghi serpentoni di ragazzi allineati diligentemente nelle diverse entrate del festival – da quella accanto alla riva del fiume Dora quasi spento agli ingressi che si affacciano all’iconica area Spina 3, dove un tempo c’erano la Fiat e la Michelin – facevano presagire una voglia incredibile di stare assieme e ballare per tre giorni.
Mentre la stampa nazionale si concentrava tutta – con paginoni interi e più – al ritorno del rutilante Jova Beach Party, al grande ballo nazional popolare, qui a Torino stava per accadere qualcosa di magico e incredibile. Un evento connesso con una cultura musicale sicuramente più specifica ma senza dubbio spesso invisa e combattuta dalle istituzioni. In tre giorni sarebbero arrivati qui per ballare al Paco Dora la bellezza di 85mila paganti provenienti da 105 nazioni diverse.
Parliamo di quella gioventù idealmente (ma anche praticamente) spesso derisa o massacrata dai media nazionali di grande diffusione. Anche durante il periodo pandemico, quando ballare era l’ultima cosa a cui pensare. Una fetta di gioventù internazionale dunque, non solo italica, accusata di egoismo e spregiudicatezza, sommariamente incriminata con un metro di giudizio che ha agito come le reti a strascico di una pesca illegale, trascinando dentro l’incriminazione ogni tipo di realtà notturna, dai rave illegali alle feste kitsch con balli, cotillon e trenini finali nelle riviere italiche. Ma purtroppo il “tarlo” del pregiudizio è difficile da estirpare: ne abbiamo parlato di recente anche con Mace.
Il Kappa FuturFestival è certamente un festival di genere. Ma dobbiamo tener conto che oramai la techno e le sue diramazioni coprono l’interesse di diverse generazioni. Fin qui ho nominato solo e genericamente i “giovani”. Ma in realtà ad occupare gli spazi del Parco Dora ci sono anche migliaia e migliaia di uomini e donne che sono cresciuti dalla fine degli anni ’80 con la musica techno, house, electro. E che oggi vogliono esserci non solo per ricordare i tempi d’oro della loro gioventù ma anche per comprendere come sia cambiato questo universo sonoro, come si sia evoluto ma anche indebolito creativamente rispetto a lustri fa.
Seguendo con attenzione ciò che accadeva sui vari palchi, abbiamo visto molte generazioni a confronto. Possiamo dire che la scena è viva e ancora ha molto da dire. Prendiamo come esempi alcune figure. Ecco un “giovane” (ma non troppo) producer come Denis Sulta. Nato e cresciuto in una città come Glasgow, che sin dagli anni 90 si è imposta come uno dei centri nevralgici della house più innovativa, ne ha preso il testimone imponendosi adesso come uno degli astri più brillanti dell’elettronica. Durante il suo set, che Billboard Italia ha trasmesso in diretta streaming, abbiamo visto una padronanza del lessico techno (e non solo) impressionante.
Vogliamo parlare di un giovane veramente giovane? Ecco il londinese Michael Bibi. La sua sfrontatezza in consolle potrebbe irritare qualcuno. Ma dietro questa attitudine un po’ da provocateur sta una già navigatissima sensibilità sulle reazioni della folla oceanica che aveva di fronte a sé nel mastodontico Jäger Stage. Sicuramente le esperienze ibizenche al Privilege lo hanno fatto crescere moltissimo.
Poi dobbiamo parlare dei maestri. Escludendo a priori la competenza, la professionalità e l’empatia del re Carl Cox, è doveroso nominare Kieran Hebden. Mister Four Tet si è presentato con un’attitudine di estrema umiltà e interesse al festival. Inserendosi in un contesto che non è il suo, con la sua classe e il suo tocco sempre leggermente astrale, etnico e psichedelico, ha saputo inserirsi perfettamente nel mood del Kappa FuturFestival. Un vero maestro. Peraltro è rimasto sul palco a vedere con divertimento la superstar di fine serata del venerdì. Peggy Gou con fare da amazzone ha sciorinato un set micidiale e serratissimo, senza far quasi uso di effetti e trucchi sulla consolle Pioneer DJ.
Sabato notte è arrivato lui, Carl Craig, il maestro da Detroit, accompagnato dal pianista jazz Jon Dixon. Quello che abbiamo visto e ascoltato è stato una sorta di masterclass tutta da ballare. Il connubio tra le tessiture ritmiche tipiche delle produzioni di Craig con le improvvisazioni in chiave minore di Dixon con i due synth a disposizione ci fa ricordare che la techno è un genere vivo. Un genere che ha saputo nutrirsi della sensibilità jazz e della scuola elettronica tedesca dei Kraftwerk, che ha messo insieme la cultura del rave con quella dei club. Una sorta di democrazia illuminata e tollerante che ha saputo coinvolgere milioni di persone sul Pianeta, e qui siamo “solo” in 80mila.
